La radice della parola fattoria rimanda al verbo fare. E in campagna non si sopravvive senza materialmente fare qualsiasi cosa. L’economia chiusa di un tempo è quella riscoperta oggi nel concetto di filiera. L’idea è di recuperare proprio la dimensione tradizionale coniugandola con gli strumenti della modernità. Il nome brigante deriva da una radice celtica che sta per altitudine. Il nome Brigantes infatti è collegabile a brig che significa “alto, elevato” e anche “colle, altura”. Non è chiaro se il significato fosse “quelli alti”, nel senso metaforico di animi nobili o “montanari”.
Da qualsiasi nome derivi brigante di certo non hanno goduto di una buona nomea nel corso dei secoli.
I briganti non erano altro che guardiani del territorio e delle genti che lo abitavano. Proprio come lo sono gli agricoltori. Difendevano sé stessi e i paesani dagli invasori e dalle ingiustizie dei signorotti che altrimenti sarebbero rimaste impunite.
L’aggettivo brigantesca è quindi una filosofia aziendale: essere inarrestabili di fronte alle difficoltà, sfuggenti (soprattutto alla burocrazia!), combattivi quando la situazione lo richiede, leali e a fianco dei più deboli sempre. Ma è in particolare un omaggio a un lontano avo famoso brigante della Sila, Giosafatte Talarico, cercando di diffondere la memoria delle sue gesta mitiche e spregiudicate.
I briganti non erano che contadini che chiedevano solo di poter coltivare la terra per garantire la sopravvivenza alle loro famiglie. Il carattere feudale delle terre calabresi (in particolare delle zone interne montane) era una vera e propria piaga che esponeva le classi più deboli a uno sfruttamento senza fine. Ma puoi sfuggire alla legge, non alla giustizia dei briganti. Giosafatte, nato nei primi del 1800 e originario di Panettieri, proprio fra i boschi e i contadini trovava rifugio e protezione. Vediamo di conoscerlo meglio.
Giosafatte Talarico, il Robin Hood della Sila
Brigante gentiluomo: si può sintetizzare così la figura di Giosafatte Talarico, avvolto dalla leggenda e dal suo pesante mantello nero. A metà Ottocento era il padrone incontrastato della Sila. Un uomo ricco di contraddizioni: colto, dall’aspetto signorile, con un debole per le donne, attento a non fare male a bambini, anziani e animali ma anche spietato con i nemici.
Così lo descrive Salvatore Piccoli nel suo prezioso libro “La leggenda di Giosafatte Brigante di Panettieri”: “Le sue gesta vengono ancora narrate dai vecchi con orgoglio, con una particolare luce negli occhi. Lunghe sere invernali accanto al camino ho trascorso con alcune persone anziane di Panettieri che parlavano di Giosafatte come se parlassero del più puro degli eroi. I loro racconti, pur affaticati dal tempo, erano ancora vivi, segnati da un’antica suggestione: il ricordo di Giosafatte vive nella memoria collettiva come il giustiziere che vendicava i torti e difendeva i deboli. La nostra gente, da mille anni oppressa, depredata e umiliata aveva bisogno di trovarsi un eroe, un simbolo, un vendicatore, cui affidare la speranza di una vita migliore, anzi, direi di una vita! Ma fu da questi racconti che presi a ricercare riferimenti storici documentati o indizi letterari. Sono state le fonti archivistiche e la bibliografia storica a offrirmi un determinante contributo di chiarezza anche se i rapporti di polizia hanno ben altro tono rispetto ai commoventi racconti degli anziani. Ma in sostanza, Giosafatte fu davvero un personaggio straordinario. Fu davvero sensibile alle ingiustizie e disponibile ad aiutare i deboli, ma fu anche crudele quando ce ne fu bisogno. Giosafatte operò in tutta la Sila, dove, all’epoca, agivano bande ben definite, piccoli gruppi e addirittura individui isolati. Le loro gesta rimangono per la gran parte avvolte nel mistero delle impenetrabili selve silane. L’ambiente storico e geografico in cui agì Giosafatte fu la Sila alcuni decenni prima dell’unità d’Italia: la Sila tutta: da Camigliatello a Taverna, da San Giovanni in Fiore a Panettieri. Giosafatte vive ancor oggi nella memoria collettiva di Panettieri e dei paesi vicini, come il vendicatore dei torti, il romantico difensore dei deboli. Giosafatte fu un brigante solitario e particolare: uccideva solo per vendetta o per ridare ai poveri quello che l’arroganza dei baroni aveva loro tolto. La sua abilità nel travestimento, la sua cultura e soprattutto l’accortezza di non legarsi per troppo tempo a bande numerose, ma avere solo due amici fedeli: Felice Cimicata di Taverna e Benedetto Sacco di Castagna, fecero di lui un imprendibile fantasma, una leggenda vivente! Solo un patto con il monarca borbonico lo stanò dalle selve silane. Nel 1845 il re Ferdinando II, desideroso di dare all’Europa un’immagine pulita del suo regno, constatato che con la repressione non riusciva a venire a capo del fenomeno e insensibile alle tematiche sociali, vero scoglio insuperabile dalla sua mentalità, propose a Giosafatte e ad altri briganti di arrendersi in cambio di una nuova e libera vita lontano dalla Sila. Giosafatte così venne esiliato nell’isola di Ischia dove ebbe casa e stipendio. Aveva allora 40 anni e altri 40 visse in completa tranquillità davanti al mare!”.
Mario Greco è nato nel 1954 a Castagna di Carlopoli, un centro della Sila piccola catanzarese. Nei primi anni Settanta studia a Catanzaro e scopre la magia della fotografia; ma un ragazzo di vent’anni ha bisogno anche di evadere dal suo paese: l’occasione è la frequenza di un corso di fotografia a Torino. Porta i suoi scatti in un’agenzia fotografica e riceve pochi spiccioli che gli consentono inizialmente di pagare l’affitto e di mangiare una volta al giorno… o a pranzo o a cena!
La sera scatta foto nei locali: ai clienti fa piacere mettersi in posa e ricevere, dopo pochi minuti, il ricordo di una giornata particolare. Riesce a farsi notare da un giornalista che collabora con alcune riviste musicali. La proposta è allettante: seguire i cantanti e i gruppi rock più in voga in quegli anni nei grandi concerti in giro per l’Europa. Fotografare Bob Dylan, Carlos Santana, Peter Gabriel, i Genesis, i Pink Floyd e altri complessi pop è un’esperienza da non perdere.
Dopo tanto viaggiare e tanti scatti pubblicati sui periodici che vanno per la maggiore nel mondo giovanile, decide di tornare alle origini e insieme a sua moglie Gianna pensò di aprire a Carlopoli uno studio fotografico. Con l’inseparabile macchina fotografica (nel corso del tempo ne ha cambiate parecchie, che custodisce gelosamente in un piccolo museo personale) è ritornato bambino, alla ricerca di quelle scene, personaggi e atmosfere che aveva visto quando era un adolescente.
Con le sue foto cerca di ridare vita a un passato che inesorabilmente sta scomparendo: le processioni religiose, gli antichi mestieri, gli oggetti di lavoro, ma soprattutto gli animali che hanno popolano le campagne.
In ogni scatto tutto deve essere al posto giusto, a iniziare dalla luce che indica la direzione allo sguardo di chi osserva la foto. Il resto lo fa la sensibilità di Mario che riesce sempre a cogliere attimi di struggente malinconia pittorica. La Sila, i boschi cangianti, le distese verdissime, il cielo e le fiumare d’argento, rimangono impresse nelle sue fotografie come fossero vive. Nelle sue foto il silenzio parla: è come se, osservandole, si ascoltasse l’armonia della natura.
Il suo racconto fotografico è “alvariano”. Lo scrittore di San Luca nel suo celebre romanzo Gente in Aspromonte racconta l’epopea degli uomini e delle donne che vivono e lavorano in montagna, un’eredità che deve spingerci a salvaguardare le bellezze di questa terra e i suoi prodotti agroalimentari.
All’improvviso dentro tali scenari prorompono con forza emotiva volti duri, uomini che paiono rimasti incollati a un tempo immutabile, in bianco e nero, in tutte le sfumature del grigio. Gli sguardi, le mani e i corpi tesi a succhiare dalla terra, unica madre, l’essenza vitale. È dalla terra che sembrano scaturire le immagini degli uomini e le loro movenze e alla terra rimanere avvinghiati per sempre. Figure che non vediamo più, ma che sono l’essenza della nostra storia. Mario Greco cattura e ridà vita alla vita di tutti i giorni: le antiche arti dell’esistenza, le arcaiche dinamiche della società contadina rimangono impresse sulle sue fotografie, ma soprattutto nell’anima di chi le guarda.